venerdì 27 settembre 2013

Mamma, butta la pasta

Sulla questione Barilla sarò breve.

Oltre a segnalare due post intelligenti (li trovate qui e qui) e diecimila parole inutili (cercate su Google), non ho altro da aggiungere.

P.S. la citazione del titolo è un omaggio a un grandissimo uomo di sport.

martedì 24 settembre 2013

Guerrieri


Oggi un post veloce veloce (parecchio lavoro incombe e poi ogni tanto bisogna sintetizzare, no?). Con un piccolo esperimento. Aprite Twitter, se avete un profilo, e cercate l'hashtag #guerrieri. Io l'ho fatto per capirne di più di questo progetto di comunicazione di Enel e mi sono trovato davanti un risultato molto particolare, bianco e nero, senza grigi:
  • Chi ne ha una percezione molto positiva: gente collegata a Enel o che ci lavora, testate giornalistiche, illustri guru del marketing online che mettono parecchi punti esclamativi, persone che scrivono le loro storie personali in modo bello e spontaneo.
  • Chi ne ha una percezione molto negativa: tutti gli altri.
A quanto sembra, non esiste via di mezzo. Lasciamo tempo al tempo e vediamo se la campagna produrrà qualche frutto. Nel mio piccolo, mi limito a sottolineare una cosa: se in Italia fai le bollette tra le più care d'Europa, anche se la situazione è in lento miglioramento, è dura mettersi così, all'improvviso, dalla parte delle persone che quelle bollette fanno una fatica boia a pagare. Una semplice campagna di comunicazione non basta se dietro non c'è qualcosa di concreto, oltre a dare uno spazio online e a spingere a fare storytelling. Si rischia che la gente si senta presa in giro. Rischio grosso. "Il guerriero non è chi combatte, è chi sacrifica se stesso per il bene degli altri" diceva Toro Seduto. 


(Photo credits: http://northdakotacowboy.com)

giovedì 19 settembre 2013

A lezione di business da GTA 5


Grand Theft Auto è uno dei giochi per Pc e console più famosi e venduti di tutti i tempi, una vera pietra miliare per qualsiasi appassionato. Ora ne è uscita la versione 5, ottenendo un successo di vendite tale in 24 ore che se un blockbuster di Hollywood lo fa in un anno si stappano svariate bottiglie di champagne. Voglio solo sottolineare tre aspetti di questa faccenda, visto che mi occupo di marketing e non di giochi.
  • Il budget previsto per lo sviluppo e la promozione di questo gioco è imponente, 265 milioni di dollari, come un film di Hollywood ma senza gli attori da pagare. Il gioco più costoso di sempre, semplicemente. La cosa interessante è la suddivisione del budget stesso: 115 milioni di dollari per lo sviluppo (43% del totale) e 150 milioni per il marketing (57%). Semplificando ma non troppo, la promozione è stata considerata più strategica della produzione. E i risultati, sottolineo molto bene, stanno dicendo una cosa: scelta azzeccata.
  • Entro la fine dell'anno usciranno le due nuove consolle (XBox One e PS4), che avranno prestazioni notevolmente superiori alle attuali e, altra cosa molto rilevante, non saranno compatibili con i vecchi giochi (anche se si aspettano novità in questo senso). Nella sostanza, il gioco più costoso di sempre è stato sviluppato per essere usato principalmente su due console che saranno presto obsolete. Perché? Perché hanno previsto obiettivi di business molto precisi. Secondo loro, le vendite nel breve periodo saranno più che sufficienti . In più, conoscono i loro clienti, sanno che molti di loro non corrono a comprarsi la nuova console e che ci sono 150 milioni di console quasi obsolete in giro. Ci vorrà del tempo prima che le nuove arrivino a quei livelli. E quando accadrà, GTA5 avrà già messo più che a posto i suoi margini.
  • "It felt like you were in a Quentin Tarantino film" ha commentato un esperto. Al di là delle accuse di violenza gratuita che sono state poste al gioco (i giocatori non sono entità prive di raziocinio, ricordiamocelo), è evidente che coinvolge la persona che gioca in un'esperienza molto più complessa e attiva rispetto a un film. Visto che il livello visivo ormai è quasi alla pari con quello cinematografico, lo scontro sembra abbia avere scontati. Un product placement evoluto potrebbe essere un'opportunità sempre più efficace per un'azienda, anche perché non si parla di semplice pubblicità (cartelloni sui muri, ad esempio) ma di elementi funzionali al gioco stesso (devo telefonare e uso uno specifico cellulare) per renderlo più vero e credibile, ossia il suo obiettivo prioritario. I produttori di armi e di auto ci sono già arrivati, probabilmente c'è spazio per tanti.
C'è chi dice che anche nel mercato dei videogiochi non è che sia tutto rose e fiori però rispetto ad altri settori direi che le prospettive sono più che incoraggianti. Ripeto, non sono un esperto di giochi e magari mi sfugge qualche passaggio importante ma mi pare che di carne al fuoco ce ne sia. E finisco con una riflessione personale sui messaggi del gioco, derivata dal fatto che ho molti amici che si divertono con GTA e che nessuno di loro ha mai rapinato qualcosa o rubato macchine, a quanto ne so.


P.S. Qualcuno dice che il personaggio della foto, Trevor, mi somiglia vagamente. Altri che somiglio a Riddick. Preferisco la seconda.

martedì 17 settembre 2013

Un nuovo logo? Prima fai un progetto, poi fai Yahoo!


Yahoo ha cambiato logo, come molti di voi sapranno. Tra le miriade di articoli che hanno commentato questa notizia mi è piaciuto soprattutto questo, apparentemente molto duro ma, a leggerlo bene, condensa una critica costruttiva talmente strutturata che non si trova spesso in un unico post. Ne estrapolo solo alcune frasi, che ritengo molto utili soprattutto come consigli da dare a chi deve fare un rebranding. Rimangono valide anche per molte altre iniziative di comunicazione.
1. Redesigning a logo for a $10 Billion Dollar company that is in deep trouble is not a matter of talented designers and personal preferences for design. It is not about fiddling. Doing it in a weekend is simply unprofessional. 
2. Branding doesn’t start with the logo. It is not primarily a visual discipline. Your brand is what you stand for. Branding is more about content than shape. It is who you are, not how you look. 
3. The hard part is defining what your brand is and what it aims to become. Your brand strategy follows your brand ambition, and your visual identity mirrors your overall brand ambition. Identity is not just how you look, it is what you say, what you do, what you are. What is Yahoo? Yahoo is not associated with being whimsical or sophisticated, rather it is mostly boring and dull. It doesn’t portray modernity or freshness, it feels obsolete and dated. There is no humanity in the brand identity, it’s computed, impersonal, scattered. 
4. Maybe the Yahoo she (Marissa Mayer) sees in the logo is the Yahoo she wants to build. A bizarro Yahoo, the opposite of what it is, a Yahoo that we have yet to see. It is not impossible, but highly improbable. Maybe, again, it’s all just bullshit. She is not describing Yahoo, she is just describing what the logo should convey. 
5. I am not writing about brand design, but about brand management. This is about a simple rule: Brand design follows brand management, not the other way around.
6. For a brand like Yahoo there is something more important than spacing, kerning, colors, serifs, or making designers angry at this point. No, it’s not getting attention. It’s gaining trust. Ironically, for that you need a reflective, clear, and consistent brand identity. A different logo powered by bullshit doesn’t convey identity and trustworthiness. It conveys desperation. 
Ho voluto lasciare il testo originale per mantenere inalterato lo spirito di quel post, una critica disperatamente costruttiva. Se fossi Marissa Mayer, mi sarei appeso la stampa di questo testo in ufficio ma lei è CEO di Yahoo, sa certamente cosa fare. Io, nel mio piccolo, riassumo queste sei piccole lezioni con parole mie:

  1. Cambiare la strategia di comunicazione di un'azienda non si fa in un weekend, neanche in una settimana. A meno che non ci si voglia prendere in giro da soli.
  2. Bisogna partire da quello che l'azienda è e da cosa vuole, poi si cambia il marchio. Fare l'opposto non serve a niente, si perde solo tempo con la grafica e i colori.
  3. L'identità di un'azienda si esprime in base a cosa si dice e e perché, non da come si decide di apparire. Ci sono bellissimi loghi che sono morti e sepolti, non è un caso, semplicemente non avevano nulla da dire.
  4. Bisogna esprimere quello che l'azienda è (mission), non cosa vuole diventare (vision). Una questione di rispetto nei confronti dei clienti, innanzitutto.
  5. Il design del marchio segue la strategia di comunicazione del marchio stesso. Ne è solo una parte, per quanto importante. Puoi avere un motore potentissimo ma senza pneumatici, freni, trasmissione e cambio non vai da nessuna parte.
  6. L'obiettivo non è ottenere attenzione dai tuoi potenziali clienti, è guadagnarsi la loro fiducia. Molto, molto, molto più difficile ma solo così ottieni risultati. Ci vuole un progetto, obiettivi definiti, una strategia e tante altre cose. Insomma, ci vuole molto più di un weekend.
Aggiornamento: ho scoperto ora che anche Bing ha fatto il restyling del logo. Vedendo anche il video di presentazione, non ho dubbi su quale sia il loro obiettivo: fare come Google (il logo ricorda anche a voi Google Drive?). Mica facile.

(Photo credits: http://www.itespresso.it/)


venerdì 13 settembre 2013

La sicurezza delle informazioni? Non solo tecnologia, c'è il fattore umano

Come sapete, sono da sempre un grande sostenitore delle policy aziendali, ossia quelle regole "di buon senso" per la gestione della vita di ogni impresa che sembrano scontate ma che molto spesso non lo sono. Tempo fa avevo citato le linee guida di TNT, organizzate in un'infografica molto carina anche nel design, e anche la policy del Governo inglese sulla creazione dei contenuti. Tutte cose che ho visto essere interessanti per molti, non solo per me.

Oggi voglio dare visibilità a un bel documento (lo trovate qui sotto e su Slideshare) che approfondisce la delicatezza del fattore umano per la tutela della sicurezza delle informazioni aziendali, alla luce dell'apertura portata dai Social Media. Un tema che, come si capisce, è molto delicato. L'ha segnalato Piero Tagliapietra, uno degli autori del testo e persona che vi consiglio vivamente di seguire su Twitter. Un documento semplice da leggere e utile per tutti, senza troppi tecnicismi. Buona lettura.


mercoledì 11 settembre 2013

Il prezzo è giusto (girando spesso la ruota)


Il pricing di un prodotto è un tema che da sempre mi affascina. Leggo spesso di linee guida che possono aiutare un'azienda a definire il prezzo più giusto per la sua offerta in base a parametri più o meno definiti ma la sfida rimane affascinante. Un compromesso enorme di più fattori che deve portare a un risultato ottimale in termini di margini: posizionamento sul mercato, percezione da parte del cliente, costi di produzione e promozione e tanti altri. In più si deve decidere se porsi obiettivi di breve, medio o lungo periodo, in base a un processo di definizione della strategia aziendale e del prodotto. Infine, i risultati: chiarissimi e inequivocabili, per una volta. C'è tanta gente che dice che il pricing è più semplice di quello che appare (aumento prezzo 1%, aumento profitti dell'11,1%, il tutto già calcolato nel 1992). Non sono d'accordo e spiego perché.

Ci sono aziende di primissimo piano a livello mondiale che hanno sbagliato completamente questo approccio, mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza. Perché definire il pricing di un prodotto è una cosa del tutto soggettiva: come possono esserci regole valide per tutti quando il prezzo è la somma di fattori così diversi (il costo di una vite e la percezione del mio marchio da parte di un potenziale cliente) e unici per ogni situazione? Non c'è una formula magica che Excel possa esprimere. Paradossalmente, più leggo cose intelligenti sulla questione del prezzo e più sembra che i fattori che incidono aumentino di numero e complessità. Se avete tempo, leggete questo post, esprime esattamente quello che penso e sento.

Io continuo a leggere e a informarmi, anche perché seguo i consigli di persone intelligenti. Se qualcuno di voi ha dritte da dare ci sono i commenti, c'è Twitter, c'è Facebook, c'è la mail, insomma ci sono un sacco di modi. E la cosa mi interessa. L'unica cosa certa è che per definire sempre meglio i prezzi dei prodotti che vendiamo dobbiamo, ogni giorno, conoscere meglio le persone che comprano o hanno intenzione di comprarli. Ogni giorno è utile per riflettere se il prezzo sia giusto o no. Non esistono Excel, non esistono pallottole magiche, esistono solo metodi per integrare i dati che abbiamo e per sperimentare continuamente per vedere se funzionano o meno. I primi ad accorgersi che quel pricing funziona o meno dobbiamo essere noi, non i nostri clienti.

Poi alla fine scopriremo che magari bastava solo alzare il prezzo per avere più margini. Oppure proporre tre alternative e fissare un costo che finisce con il numero magico 9. Tuttavia conoscere bene chi sta fuori dai nostri uffici è un investimento che porta sempre dei frutti. Non è detto che siano sempre quantificabili in Euro, la cosa certa è che ci servono disperatamente.

P.S. Non ho trovato in Rete un'immagine decente di "OK il Prezzo è giusto" da mettere a corredo, ho dovuto optare per la versione americana. La Rete non dimentica, ok, però talvolta ricorda male. 

venerdì 6 settembre 2013

L'empatia si impara, anche sul lavoro


Non si nasce empatici, tanto per parafrasare un vecchio detto napoletano. Per dirla meglio, la predisposizione caratteriale a immedesimarsi nei confronti dell'altro e l'apertura a coglierne i segnali verbali o non verbali è una cosa con cui in parte nasciamo ma sulla quale ci si può lavorare parecchio. Si evidenzia già all'età di sette mesi (vedi anche il video qui sopra di Jeremy Rifkin) e poi i figli "imparano" dai genitori ad essere più o meno aperti nei confronti del resto del mondo (la mia esperienza familiare, che non ha basi scientifiche, conferma in pieno quest'ultimo assunto).

Perché esco dal seminato e faccio questa premessa psico-sociologica che non mi compete? Perché dal punto di vista del lavoro e della comunicazione, creare empatia con le altre persone facilita notevolmente le relazioni, fa crescere la fiducia reciproca, mette buone basi sotto un dialogo professionale fatto di dati, di prodotti e di prezzi. Attenzione, non bastano sorrisi, complimenti e gadget, ci vuole molto più lavoroEmpatia fa rima con piaggeria solo per caso. Ci si deve togliere pezzo dopo pezzo le parti della corazza che abitualmente portiamo, non fare finta di non portare un'armatura. Non è un segno di debolezza o di insicurezza, è l'esatto opposto.

Creare empatia nei confronti di un nostro potenziale cliente o di un nostro partner fa lavorare meglio noi e lui, anche se poi le cose non vanno bene. Si creano basi professionali di fiducia che porteranno risultati magari anni dopo: mi è capitato più volte che un vecchio collaboratore mi ha chiamato per un progetto "perché aveva lavorato bene con me" e, oltre a portare euro, porta bellissime soddisfazioni. Se cerchiamo di avere una buona relazione con la persona che abbiamo davanti (non sempre ci si riesce, sia chiaro), è un investimento che non ha controindicazioni, può portare solo benefici.

La critica che si fa a molti "tecnici" è che non si mettono mai nella parte degli utilizzatori dei loro prodotti. Io invece ne ho visti alcuni, e non pochi, provare ad aprirsi durante una riunione, cercare un dialogo con un potenziale cliente magari molto critico inizialmente. Perché vedevano che il capo e il resto dell'azienda seguivano questa filosofia. Soprattutto, ho visto persone apparentemente rigidissime aprirsi bruscamente verso l'esterno nel momento in cui si è trovata la chiave giusta per aprire una porta. Avevano un interlocutore che li ascoltava davvero, interessato a quello che diceva.

Un prodotto non è mai perfetto ma sempre migliorabile: se si crea empatia con le persone con cui si lavora, qualsiasi sia il loro ruolo, il lavoro sarà sicuramente più semplice. Per tutti.

mercoledì 4 settembre 2013

Lo storytelling? Roba da ottimisti

Ho scoperto che raccontare storie, aneddoti, casi di successo è una cosa per ottimisti, mentre raccogliere e analizzare dati è per pessimisti. Io da sempre sono più portato a rapporti con lo storytelling piuttosto che con i Big Data e ora ho una conferma in più sul perché: sono un ottimista.

In un periodo piuttosto cupo dal punto di vista economico, mi accorgo io stesso di avere bisogno di storie, di racconti, di accadimenti che mi diano una spinta per fare certe cose, compreso il comprare qualcosa. Non mi basta che siano a basso prezzo (numero) o che siano le cose più vendute sul mercato (numeri), ho bisogno di percepire un valore aggiunto, un qualcosa di più che mi faccia decidere di acquistare qualcosa, una storia. Ho bisogno che l'azienda che mi vuole come suo cliente mi racconti, in modo intelligente, perché è più brava di altri a fare quello che fa. Non mi serve che sia leader di mercato, mi serve che pensi a me e a molti altri come me mentre persegue il proprio business.

Il raccontare storie aziendali in Italia è una prassi ancora poco seguita, con le eccezioni del settore food e lusso, ossia due celebrati giganti del cosiddetto made in Italy. E ne abbiamo migliaia da raccontare. Ci sono pochi strumenti per capire che fare storytelling non è "prendere uno che sa scrivere bene, meglio un giornalista, e far scrivere tante belle parole sui nostri prodotti sul sito e sulla brochure". Raccontare storie è un'arte difficile, le cui priorità mutano nel tempo in base all'evoluzione della società nel quale le aziende e i loro clienti vivono. Non ci sono scorciatoie, non basta usare hashtag, QR Code o altre mode del momento, ci vuole metodo e sperimentazione.

Quel che è certo però è che "le persone vogliono contenuti, vogliono storie. I dispositivi con i quali vi accedono sono irrilevanti". Lo dice Kevin Spacey. Sì, l'attore. Guardatevelo qui sotto mentre parla del futuro dell'industria della televisione, vi darà più spunti di tanti celebrati guru della comunicazione.